Adagiato sulle cortesi e amiche sponde del Metauro, si erge il complesso industriale dell’ex Lanificio Carotti.
L’imponenza degli edifici, soprattutto se paragonati al piccolo centro storico di Fermignano, riflette l’importanza che l’opificio ha avuto durante il corso dei secoli per la città che ancora oggi è chiamata “Laniera”.
Il complesso industriale, sorse insieme al Castello di Fermignano ed ha accompagnato fin dai primi giorni le vicende di questo paese, quando furono costruiti il mulino e la cartiera, le cui origini risalgono agli inizi del XV secolo, quando fu iniziata la produzione della carta di stracci sotto l’egida della famiglia Montefeltro. Nel 1507, dopo un secolo dalla sua costruzione, la cartiera fu donata dal duca Guidubaldo alla Cappella del SS. Sacramento di Urbino affinché la sua rendita servisse a mantenere la Cappella Musicale del Duomo. Nel corso dei secoli il complesso industriale si espanse e vicino alla cartiera sorsero altri opifici, come ad esempio le filande da seta. Nella seconda metà del XIX secolo, la cartiera andò in crisi, fino a chiudere i battenti.
Le cause furono molteplici, dalla mancanza di cospicui investimenti sull’innovazione, alle epidemie di Cholera Asiatico, per colpa delle quali fu messa al bando l’importazione e l’esportazione degli stracci, fondamentali per la produzione della carta.
La Cartiera fu acquistata insieme agli altri edifici dalla nobile famiglia Albani nel 1870.
Gli Albani cercarono di risollevarne le sorti attraverso molti investimenti e accordi col Comune di Fermignano, inoltre si passò dalla produzione carta di stracci a quella di carta paglia. Nonostante questi sforzi, la cartiera cessò di funzionare prima del nuovo secolo.
Il polo industriale comunque continuò a funzionare, gli Albani ne furono i proprietari fino al 1914, anno in cui gli edifici furono acquistati da Augusto Carotti, industriale specializzato nel settore dei tessuti, che trasferì la sua attività da Cagli a Fermignano. Augusto Carotti si concentrò soprattutto sulla produzione della lana ma era attiva anche una filanda. A metà degli anni quaranta del XX secolo, la famiglia Carotti costruì vicino alla cartiera un imponente edificio di cemento armato a forma di parallelepipedo, nel quale fu spostata la produzione della lana. L’edificio fu costruito in due diversi interventi tra il 1945 e il 1947 e si univa a quello dell’antica cartiera sfondandone una parete.
Il Lanificio Carotti continuò a essere operativo fino alla fine degli anni novanta del XX secolo, quando chiuse i battenti e fu svuotato.
Gli stabili furono acquistati nel 2005 dalla ditta Megawatt, che li trasformò in centrale idroelettrica riattivando tre vecchie turbine e iniziando a produrre energia in modo del tutto etico e rinnovabile.
In seguito alle violente nevicate che investirono l’Italia centrale nel 2012, l’edificio del 1945 crollò a causa del peso della neve accumulatasi sul tetto. Furono danneggiati anche gli edifici più vecchi, compresi quelli della cartiera il cui tetto fu compromesso, tuttavia la centrale idroelettrica continuò a funzionare.
La Megawatt, rimboccandosi le maniche intraprese un’audace piano di recupero dei locali danneggiati, iniziando col restauro dei locali della cartiera.
LA DISTRUZIONE DI FERMIGNANO
Era l’estate del 1944 e la guerra infuriava in Italia.
Gli Alleati avevano da poco sfondato la Linea Gustav e ora avanzavano verso Nord, verso la Linea Gotica.
Pompeo Carotti, era stato segretario del fascio di Fermignano, ma era ormai un uomo disilluso dalla politica. Fin da ragazzo si era distinto nelle organizzazioni fasciste, ma né lui né la sua famiglia ne condividevano il lato più oscuro, come i pestaggi e le leggi razziali.
Pompeo durante il periodo della resistenza non aderì alla Repubblica Sociale e corse grossi rischi.
Il 30 giugno 1944 i tedeschi raggiunsero in forze Fermignano e cercavano anche lui.
Insieme ai fratelli cercò di fuggire lungo il fiume, ma i tedeschi li raggiunsero e alle sei del mattino li caricarono su un camion in piazza Garibaldi con Paolo Falasconi, Cristoforo Giorgiani e altri fermignanesi che furono portati al comando tedesco con l’accusa di aver collaborato con i partigiani.
Con Pompeo e i suoi fratelli si fece arrestare anche il padre Augusto, che non voleva abbandonarli.
Pompeo e gli altri industriali si dichiararono estranei ai fatti perorando in ogni modo la propria causa, e alla fine grazie al sacrificio del Giorgiani che si assunse ogni responsabilità per l’azione partigiana a Fermignano, Pompeo e gli altri furono scagionati.
Giorgiani e gli altri partigiani catturati furono invece fucilati.
Mentre il vecchio Augusto Carotti era portato a Fermignano in motocarrozzetta, Pompeo e gli altri tornarono a casa a piedi affrontando un lungo viaggio tormentato dai continui bombardamenti. Finalmente a Fermignano, i Carotti si trovarono di fronte un grosso problema.
I tedeschi che si preparavano a difendere la Linea Gotica e avevano l’ordine di distruggere tutte le fabbriche, le stazioni, la ferrovia e i ponti prima di ritirarsi sulle posizioni fortificate.
Il lanificio fu minato con ingenti quantità di esplosivo dalle S.S. del tenente austriaco Kurt Schwinger, sul cui vessillo erano raffigurati tre topi roditori.
La distruzione di Fermignano era questione di giorni, ma non tutto era perduto. In un clima d’incertezza generale, alcune persone si mossero per salvare la città.
Ci sono diverse versioni di cosa successe in quell’estate del 1944 e del perché alla fine il tenente Schwinger disobbedì agli ordini. Probabilmente le versioni sono tutte vere.
I Carotti mandarono uno dei fratelli di Pompeo a parlamentare al quartier generale di Urbino, dicendo che nel lanificio in quel momento si lavorava per i tedeschi, quindi presentarono una questione economica.
I Falasconi, grazie alla conoscenza del tedesco di Paolo e Giulia, cercarono di far leva direttamente sulla morale di Schwinger che era un architetto intelligente e una persona razionale. Don Adelelmo Federici, pastore di anime di Fermignano, vide il tenente Schwinger tra i banchi della chiesa e finita la messa, lo invitò a prendere un caffè facendo leva sulla sua cristianità.
Insieme, i fermignanesi convinsero il tenente delle S.S. ad attuare una falsa e parziale distruzione della città. Al lanificio, i Carotti e i validi operai lavoravano durante il giorno mandando avanti l’attività, mentre la notte, a turno, gli operai sotterrarono le macchine principali della ditta. Si costruirono muri spessi 40 cm per proteggere le turbine idrauliche, si costruirono macchinari finti in legno per fingere la distruzione e infine si ruppe anche il tetto del lanificio. Tutto questo era fatto anche nel resto del paese. Quando i tedeschi si ritirarono i primi di agosto, la distruzione della città era solo apparente.
La stazione era stata compromessa con dei trattori, ma la ferrovia rimaneva intatta, il Ponte Romano rimase integro, tanto che poco dopo ci transitarono le truppe dell’VIII armata britannica. Il lanificio riprese la produzione el giro di due settimane, anche se per fare in modo che i tedeschi non ostacolassero l’attività del lanificio con sospetti o altro, in portineria si tenevano sempre pacchi di calze da regalare alla truppa.
BETTA MAROTTI, LA BANDA DEGLI STRACCI
Betta Marotti è stata una fermignanese di umili origini vissuta nel XIX secolo. Conosciamo la sua storia perché nel 1864 il sindaco di Fermignano, Massimiliano Clementi e il procuratore del tribunale di Urbino fecero delle indagini sul suo conto e su quello di suo marito ed entrambi rischiarono la galera.
Le indagini fanno riferimento a dei furti di stracci all’interno della cartiera avvenuti tra il 1858 e il 1860, prima dell’unificazione italiana. Le prove erano deboli, gli stessi testimoni non sono sicuri di quello che videro nell’oscurità. Ma facciamo un passo indietro, chi era Betta Marotti? Sappiamo (ancora) molto poco di lei. Per cominciare Marotti era il suo cognome da sposata. Passava molto tempo in casa, suo marito era Antonio, detto Picchio. Avevano dei figli, uno solo dei quali era in età per aiutare i genitori. Vivevano nei vicoli, in centro a Fermignano.
Erano poveri, si guadagnavano il pane facendo legna nei boschi e raccoglievano gli stracci, rivendendoli poi alla cartiera. Questa pratica era diventata difficile, perché gli stracci erano considerati possibili conduttori del morbo del Cholera Asiatico e il loro commercio in quegli anni era sottoposto a restrizioni speciali.
Per sbarcare il lunario, i Marotti si tenevano in casa un inquilino che diventò loro amico. L’uomo si chiamava Giuseppe Conti, detto il Romagnolo per via delle sue origini e del suo accento. Nella loro cerchia fidata c’era tra gli altri anche un certo Luigi Garulli di Fermignano. Tutti e quattro erano poveri, ma i cittadini del piccolo paese li vedevano spensierati e condurre una vita al di sopra delle loro possibilità. Questo alimentò le dicerie sul loro conto.
In quegli anni, la provincia era ancora infestata dai briganti. Fermignano nel 1861 subì una grassazione da parte della famigerata Banda Grossi, e poi anche una dalla meno nota Banda Bojani. Inoltre, in questi anni tumultuosi dovevano esserci anche dei fuorilegge più o meno organizzati anche a Fermignano, che si resero tra le altre cose colpevoli di una grande rapina in località Montesoffio ai danni di un gruppo di urbinati diretti alla grande fiera di Urbania.
La Forza pubblica, si dedicò allo sradicamento dei briganti in tutta la zona e combatté accanitamente contro la delinquenza locale. La scalata sociale era pressoché impossibile.
Il gruppo di Betta Marotti era considerato una spina nel fianco per la comunità. Senza contare che erano davvero dei ladri e vivevano contando sulla cooperazione e sugli espedienti.
Quando Conti e Garulli furono arrestati e condannati per furto e brigantaggio, le autorità videro un’occasione per chiudere in modo definitivo la partita anche con il resto della banda, in particolare con i coniugi Marotti, considerati i principali complici dei malfattori.
Grazie a una nuova testimonianza raccolta dal vecchio direttore della cartiera, Il signor Tamagnini, il caso su Betta e Picchio fu riaperto.
Si raccolgono molte testimonianze dei lavoratori della cartiera e di altri abitanti di Fermignano.
Il signor Crescentino Lucciarini racconta che gli stracci portati dai Marotti erano sempre di alta qualità, quelli per fare la carta chiamata “di Fioretto”. Avevano anche il medesimo profumo di quelli conservati nel magazzino della cartiera. (Questo fatto viene riportato da tutti i testimoni).
Le indagini e le testimonianze venivano raccolte già dal dicembre del 1858. Il signor Tamagnini, si accorse che dal magazzino avvenivano spesso delle sparizioni proprio di questi stracci lussuosi, ma non trovò nessun segno di scasso né alle porte né alle finestre.
Nel 1859 i Marotti continuarono a vendere lo straccio da fioretto alla cartiera ogni settimana e il Tamagnini si convinse che i due coniugi avessero una chiave falsa.
Sempre Tamagnini racconta che il 20 gennaio 1860 suo figlio Gaetano si recò alle nove di sera alla cartiera e trovò la prima porta d’ingresso aperta. Arrivò alla caldaia e vi trovò due persone con lanterna accesa che al giungere del ragazzo spensero all’istante. Gli sembrò di vedere un uomo e una donna che stavano vicino alla porta che conduce al magazzino di stracci nell’atto di volerla aprire. Gaetano si fece avanti e disse “Chi è la?”. Gli rispose una voce da uomo di cui non poté riconoscere l’identità poiché era buio. La voce disse “Va via se no ti abbrucio”. Puntando al petto del ragazzo uno strumento che non si distingueva se era un fucile o un bastone. A quel punto il giovane Gaetano si diede alla fuga, facendo ritorno a casa a chiamare suo padre.
Tamagnini una volta sveglio, si recò di corsa alla cartiera ma non vi era più nessuno.
Luigi Ottaviani abitava nello stesso vicolo dei Marotti, durante la sua testimonianza racconta che la notte del Venerdì Santo del 1861, ritornando da Fano, trovò sulla strada per casa sua due persone con dei sacchi sulle spalle che venivano per forza dalla cartiera, poiché il fiume era grosso ed era impossibile da guadare. I due tizi avevano le giacche sulle spalle che coprivano i loro volti, perciò Ottaviani si apposta vicino a casa sua, per cercare di capire chi possano essere. Uno dei due individui appare nel vicolo di Ottaviani e fa un segno minaccioso all’uomo, che alla fine, un po’ spaventato, entra in casa. La mattina dopo, a casa Ottaviani si presenta proprio Betta Marotti, che senza una ragione precisa, inizia una conversazione con la moglie di Luigi. Betta dice che quella notte era fuori, si era infatti recata al molino di Fermignano perché, diceva lei, si macinava senza bolletta a un prezzo conveniente. La signora Ottaviani, incuriosita, chiese al garzone del mugnaio, tale Merlino, se ciò fosse vero, ma la versione di Betta non ebbe alcun riscontro.
Il signor Gramolini, detto Merlino, residente in Fermignano e garzone del mugnaio, invece racconta di un incontro ravvicinato con due uomini, sempre vicino ai locali della cartiera e sempre di notte. Era andato a prendere acqua per la mola, passando per il porticato vicino alla chiesa di S. Veneranda (l’attuale palazzo Carotti), che era usato sia per il transito pubblico sia dalla cartiera, incontrò un individuo nel buio con un sacco sulle spalle. Merlino intimò il “Chi va là?” ma l’uomo rispose in tono gutturale, non facendosi capire. Merlino comunque, aveva mangiato la foglia. Si diresse verso la cartiera per accertare i suoi sospetti, ma con sorpresa sull’uscio del magazzino aperto c’era un’altra figura che lo afferrò con forza al petto e gli intimò, con uno strano accento romagnolo “Sta attento a non dir nulla poiché io ti riconosco vada bene zittisci”. Merlino, fuggì con la coda tra le gambe, ma raccontò i fatti al suo padrone, il mugnaio Federici.
Furono sentiti anche altri, un’altra testimonianza é quella del mugnaio Federici e del signor Maccioni Antonio, i quali riferiscono che i giorni della vendita di stracci, Betta e Picchio Marotti erano stati visti a fare la legna, e quindi non si spiega come abbiano fatto a reperire circa 2000 libbre di stracci di prima qualità.
Tornando alla testimonianza di Crescentino Lucciarini, esso riporta non ciò che ha visto, ma ciò che ha sentito in paese. Questo da l’opportunità di capire come le voci, più o meno maligne, corressero in paese anche 170 fa.
Nella sua testimonianza, Lucciarini riferisce di aver sentito che Gaetano Tamagnini riconobbe Betta Marotti e suo marito sulla porta della cartiera e come Picchio lo abbia malmenato addirittura con un fucile. Tutti i testimoni insomma sono convinti della colpevolezza di Betta e Picchio, ma c’è un problema. Nessuno li ha riconosciuti veramente né si è assunto la responsabilità di riconoscerli in un procedimento penale. Arrivando al dunque, la storia é spettacolare, ma debole. Indifendibile a processo. Per questo motivo, Giuseppe del Santo, giudice istruttore di Urbino, si espresse per non continuare il procedimento verso i coniugi Marotti fino alla sopravvenienza di prove specifiche. Fu comunque appurato un reiterato furto di stracci ai danni della cartiera di Fermignano per mezzo di false chiavi, ma anche se tutti i sospetti portavano a Betta e Picchio, i due la fecero franca.
LO SCIOPERO DELLE FILANDAIE
Nel 1907 gli edifici della cartiera di Fermignano erano affittati dalla ditta Collotti e Coltorti di Foligno. Nei vecchi locali sul fiume Metauro fu installata una filanda, dove si produceva seta, oltre che carta paglia.
Anche nelle campagne del paese, era molto sviluppato l’allevamento del baco da seta e la coltura dei mori e dei gelsi, essenziali per la produzione e il funzionamento della filanda. C’erano altre fabbriche a Fermignano, ma una particolarità della filanda Coltorti è che la forza lavoro era composta in grandissima parte da donne e ragazzine. Nella filanda Coltorti, le operaie Fermignanesi lavoravano per dieci ore al giorno. La loro paga dipendeva dall’età, che differenziava anche i compiti delle operaie. Nel 1907 le donne adulte erano quarantacinque e la loro paga giornaliera era fissata a lire 1, le ragazze invece erano venticinque e prendevano solo 0.75 lire.
In quel periodo non era facile essere un operaio. Nonostante la lotta dei primi movimenti sindacali e del Partito Socialista, le paghe degli operai erano misere, il lavoro era duro e lo sfruttamento era all’ordine del giorno. Nel frattempo, a Fermignano gli industriali giocavano un ruolo decisivo nelle scelte politiche del paese, spesso anche forzando le scelte degli stessi amministratori.
In quel periodo non era facile essere donna. Nonostante il progresso dello stato italiano e lo sforzo del proto movimento femminista che permise alle donne di accedere all’università, di svolgere molti lavori, di testimoniare in atti giuridici…le donne sono di fatto cittadine di serie B della società costituita. Non possono votare, divorziare e il loro salario è molto inferiore a quello maschile.
La lotta femminista e quella della classe operaia coincisero a Fermignano fin dall’inizio.
Nell’estate del 1907, forse dopo l’ennesima umiliazione subita, le filandaie di Fermignano decisero di entrare in sciopero. Tutte.
Le operaie smisero di lavorare il 1° agosto mettendo in grosso pericolo la produzione della filanda. Le filandaie chiesero un miglior trattamento da parte della direttrice dello stabilimento. Era infatti consuetudine dei padroni mettere una donna a dirigere altre donne, per meglio capire i problemi femminili (o far credere di farlo). Sembrava cosa da poco, ma nessuno cedette. Il 2 agosto lo sciopero andò avanti senza sbloccarsi. Il terzo giorno, per cercare di normalizzare la situazione, si arrivò a chiedere l’intervento del sindaco di Fermignano Luigi Piccini. Dopo l’intervento del sindaco, lo sciopero terminò e le filandaie tornarono al lavoro, ottenendo ciò che avevano richiesto. Questo fu il primo atto di ribellione delle donne di Fermignano.
Quelle donne operaie e contadine che potrebbero benissimo essere le nostre bisnonne o nonne, che sono rimaste anonime nelle relazioni e negli articoli dei giornali, così come nei libri di storia e nei bollettini del lavoro. Nonostante questo, alcune delle loro azioni coraggiose hanno dato la forza ad altri di reagire e di continuare la lotta.
Dal 1907 all’avanzata del fascismo le filandaie parteciparono ad altre agitazioni popolari, molte volte a fianco dei fornaciai o degli elettricisti di Fermignano o al fianco di altre donne, come la lega bracciantile femminile costituitasi nel 1908.
Le filandaie, insieme ai contadini e braccianti, sono anche segnalate tra le fila delle grandi sommosse popolari del dopoguerra, che culminarono con lo sciopero generale a favore della Rivoluzione Russa e (in termini locali) con l’assalto al municipio di Fermignano, durante il quale esploderà la violenza contro i possidenti terrieri e l’amministrazione. Con l’avvento del fascismo tutto il movimento operaio, anche quello femminile, fu messo a tacere. Le imprese di chi ne fece parte, dimenticate.
GIUSEPPE LENTI, UN OPERAIO AL CONFINO
Nel maggio 1940, il trentottenne Giuseppe Lenti, operaio meccanico al lanificio Carotti, si ritrovò con alcuni amici all’osteria della signora Ottaviani Renza.
Tra qualche bicchiere di vino, la combriccola si ritrovò a parlare della guerra che sarebbe dovuta scoppiare da un momento all’altro.
Lenti in merito disse che l’entrata in guerra non era sentita dal popolo italiano e che anzi aveva saputo che a Genova vi erano state delle sommosse al grido di “abbasso i tedeschi” e “viva la Francia”, aggiungendo che per intimorire la popolazione e far cessare la manifestazione erano volati a bassa quota degli aerei sulla città. La notizia si diffuse rapidamente tra la popolazione, impressionando specialmente coloro che avevano congiunti richiamati alle armi.
Il mattino dopo Lenti fu chiamato in comune dal Podestà De Anna, il quale venuto già a conoscenza dei fatti, lo diffidò.
Alle 16.10 dello stesso giorno fu condotto nella caserma dei carabinieri e dichiarato in arresto.
Interrogato dal maresciallo, il Lenti negò. Con lui fu interrogato pure Pagnini Francesco, poiché presente all’osteria. Anche Pagnini negò di aver sentito qualcosa per coprire il Lenti, ma invano.
Il maresciallo era stato istruito sui fatti e riportò al Lenti le sue parole, ampliandone i discorsi nei minimi dettagli.
Il maresciallo pose fine all’interrogatorio con queste esatte parole “ Via sovversivi e delinquenti, bastano le prove precise che vi sono qui”.
Pagnini fu rimesso in libertà, Lenti fu condotto in camera di sicurezza.
I carabinieri, credendo che il fatto fosse appianato dalle autorità locali, anziché trasferire il detenuto al carcere di Urbino, decisero di trattenerlo nella camera di sicurezza anche oltre le 48 ore, restando in attesa che gli amici del Lenti riuscissero a fargli riottenere la libertà parlandone con le autorità responsabili.
Si diede da fare Pompeo Carotti, suo datore di lavoro ed ex segretario politico. Carotti si recò al Comando di Compagnia dei carabinieri e anche alla Questura di Pesaro per chiedere spiegazioni e gli fu risposto che tutto dipendeva dal Podestà e dal Segretario Politico locale.
Gli amici di sempre del Lenti si diedero da fare presso il Segretario Politico Paolo Falasconi, ma non riuscirono a nulla, anzi furono minacciati d’invio al confino perché peroravano la causa dell’amico. Anche la madre e il fratello di Lenti si recarono dal Segretario. I due nel chiedere la scarcerazione del Lenti fecero presente anche le difficili condizioni della famiglia, ma fu risposto loro “Andate via che questa lezione ci vuole”.
Poiché i fatti non erano appianati, il 21 maggio i carabinieri condussero Lenti al carcere giudiziario di Urbino, qui il direttore del carcere all’inizio non voleva neppure accoglierlo, perché il giovane non era accompagnato da regolare accusa.
Il Lenti fu trattenuto in Urbino per 8 giorni, poi fu trasferito a Pesaro dove restò per 40 giorni in attesa di giudizio del consiglio di disciplina.
Lenti ancora non lo sapeva, ma il suo caso era diventato popolare, doveva servire da esempio.
Interrogato nuovamente, questa volta su dove avesse sentito queste voci da lui riportate, il Lenti rimase vago dicendo che non ricordava e cercando di accampare scuse. Il prigioniero cercò di ricordare ai suoi accusatori di essere un operaio che pensava al lavoro e non alla politica e ricordò le condizioni della sua famiglia, che senza di lui sarebbe stata ancor più in difficoltà. Non fu ascoltato.
Anni dopo Lenti ricordò “Mi dissero che per me una Lezione ci voleva, e che doveva servire ad esempio anche ai fermignanesi che mi avevano ascoltato e approvato e dei quali io non volli dire il nome”.
Secondo la polizia e il prefetto, Lenti “pur non avendo precedenti”, non risultando avesse mai svolto attività antifascista, doveva ritenersi “di idee avverse al Regime”, non essendo iscritto al partito fascista ed accompagnandosi “sempre ai sovversivi del luogo”.
Il prefetto chiese quindi al ministero l’autorizzazione a far infliggere a Lenti dalla Commissione provinciale il provvedimento dell’ammonizione, “quale persona pericolosa per gli ordinamenti politici dello Stato”.
Tuttavia da Roma è disposto telegraficamente il confino con destinazione la colonia di Pisticci in provincia di Matera.
Lenti fu condannato a 2 anni di confino per essere un “Comunista Violento e Pericoloso”.
Lenti rimase 10 mesi a Pisticci, a Fermignano il Podestà De Anna negò qualsiasi sussidio alla famiglia di Lenti, composta da cinque persone, solo una volta diede loro qualche chilo di farina.
Dopo 10 mesi Lenti riuscì a tornare a Fermignano grazie all’interessamento del datore di lavoro Pompeo Carotti.
Per il resto della pena Lenti dovette ritirarsi in casa a un orario prestabilito ed ebbe l’obbligo di presentarsi in caserma.
Al suo ritorno a Fermignano il Lenti seppe come e chi aveva riferito le sue parole alle autorità.
Una signora preoccupata lo aveva detto al padre di un soldato stanziato a Genova e questi per premura e paura per il figlio, chiese al Podestà se i fatti fossero veritieri e da qui, si possono ricollegare i fatti.
LE MAGLIE DEL CALCINELLI
A Calcinelli si cominciò a tirare i primi calci al pallone verso la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il 4 dicembre 1945, in vista di una partita importante, la “Mina de Cencio” e la “Bruna de Gino dla Carulla” lavorarono l’intera notte per confezionare a mano le famigerate maglie Verdenero.
Le maglie erano di lana e tutto il materiale era stato acquistato pochi giorni prima, quando alcuni di Calcinelli si recarono al Lanificio Carotti di Fermignano.
Ai suoi albori la squadra era impegnata solo in “amichevoli” contro i paesi vicini e contro le squadre formate dai soldati inglesi.
Nel 1947 inizia ufficialmente l’attività dell’Unione Sportiva Metaurense.
In questi anni i tesserini degli associati furono redatti su cartoncini pubblicitari della “Pasta Alimentare Falasconi”, sempre di Fermignano.
Le testimonianze dei paesi vicini sono preziose, anche per capire l’importanza che ebbero per il territorio il lanificio e Fermignano nell’immediato dopoguerra dove si vestiva con lana Carotti e si mangiava pasta Falasconi.
L’ALLENAMENTO DEI LANIERI
Era la settimana più fredda dell’inverno. Una bella nevicata aveva imbiancato la città e poi il freddo l’aveva trasformata in una bolla di ghiaccio.
Alle sette di sera, anche il campo sportivo di Cavanzino era diventato impraticabile e in quell’anno l’U.S. Fermignanese correva per vincere il campionato di promozione.I Lanieri, come sono chiamati i giocatori dell’U.S., non potevano permettersi il lusso di non allenarsi ed erano disposti a giocare in qualunque condizione. Fu fatto un ultimo tentativo, un’occhiata al terreno di gioco aspettando l’ultima sentenza del custode e mastro di campo Marcello – Non si può.
Tutti a casa? No. È in quell’istante che la testarda anima laniera (e tutti i pomeriggi a guardare Holly e Benji da ragazzi) venne fuori. Non si voleva rinunciare, non si poteva.
I lanieri si misero in scarpe da ginnastica e in gruppo uscirono dal campo mettendosi a correre in strada. E che bello era vedere i sorrisi delle persone e ricambiarne il saluto con orgoglio. Buona sera gente, passano i lanieri.
Dopo aver percorso le vie del centro per riscaldarsi, ai giocatori fu organizzata una sorpresa.
Qualcuno era riuscito a trovare un campo per una partita. Entusiasti e gasati, i lanieri seguirono le indicazioni fino in fondo al corso ed entrarono nella porta del grande cancello di fianco al mascarone. Stavano entrando nell’ex lanificio Carotti, ormai abbandonato.
La squadra si addentrò al buio nell’edificio, il fragore della cascata sembrava coprire ogni cosa e ricordava il frastuono delle antiche macchine che un tempo erano usate dagli operai.
Il buio era addolcito dalla luce stellare che filtrava dai finestroni cambiando le forme alle ombre. D’improvviso una mano fece scattare il vecchio interruttore, illuminando con luce bianca elettrica il vuoto di un’immensa sala.
Dopo un istante di cecità, i lanieri riuscirono a vedere le forme del lanificio, svuotato di tutto, che si stava per trasformare per una sera nella più grande arena di calcio estremo che Fermignano avesse mai visto.
Due piccole porte erano già state predisposte e al centro della grande sala da calcio li aspettavano i palloni.
– Si gioca al lanificio miei cari lanieri, regole della gabbia!
ADDIO AL METAURO
Negli anni Cinquanta, la cultura del fiume è talmente radicata nei fermignanesi che si pensa alla creazione di stabilimenti balneari per i locali e per i turisti. Una tetra minaccia incombe tuttavia sul Metauro.
Grazie a trame politiche che definire oscure è un eufemismo, si è deciso di deviare il corso del fiume in località S. Silvestro e far confluire le sue acque in quelle del Candigliano, così da sfruttarle per produrre più energia elettrica.
Pompeo Carotti, industriale fermignanese, guida la prima eroica difesa del fiume e scrive il libro Addio al Metauro che descrive ciò che all’epoca fu la battaglia di tutti per la sopravvivenza stessa della cittadina. . Pompeo descrive ciò che sarebbe avvenuto nel caso che il progetto andasse in porto.
Con il fiume prosciugato gli scarichi di Fermignano sarebbero stati rovesciati sul letto asciutto del Metauro, rendendolo una cloaca a cielo aperto, una “gora dell’eterno fetore”.
Il lanificio e le altre fabbriche, che contavano sulla forza dell’acqua e sulle turbine, se la sarebbero vista brutta e avrebbero chiuso, causando disoccupazione e la diaspora degli abitanti. Fermignano sarebbe diventata una città fantasma.
L’infame progetto fu fermato e Fermignano e il lanificio continuarono a essere rassicurati dalla dolce voce del Metauro.
CARTARI DA FABRIANO
Nell’archivio di Stato di Urbino è conservato un atto, datato 9 dicembre 1411, nel quale i Montefeltro vengono ad un accordo con tre cartari fabrianesi che hanno in affitto la cartiera; in tale atto viene ricordato che l’opificio era ancora in fase di costruzione nel 1407.
Che i conduttori della cartiera fossero fabrianesi non meraviglia per niente: in questa città la fabbricazione della carta era già in pieno sviluppo e la forte concorrenza interna aveva cominciato a causare emigrazione di maestranze specializzate verso località più o meno vicine, e tra queste Fossombrone e Fermignano.
Bisogna anche ricordare che i Montefeltro frequentavano Fabriano fin dai tempi del conte Nolfo, che di Fabriano fu podestà (1326); né va dimenticato il matrimonio tra Guido Napolitano Chiavelli, signore di Fabriano e proprietario di numerose cartiere, e Margherita, figlia del conte Galasso del Montefeltro.
Di proprietà dei duchi prima, della Cappella poi, la cartiera non fu mai gestita da questi direttamente ma sempre data in affitto: il conduttore doveva corrispondere un canone annuo, s’impegnava a rispettare i capitoli (in pratica norme contrattuali che prevedevano precisi doveri da ambo le parti), doveva garantire una produzione di carta continua e costante, per qualità e quantità (facendo salvi i periodi di guerra o di povertà d’acqua).
Spesso gli affittuari furono nobili o patrizi che investirono le loro risorse in quest’attività senza condurre l’opificio ma cedendolo in subaffitto a lavoranti. A questo proposito merita ricordare che i primi maestri cartai attivi a Fermignano furono quasi tutti di origine “estera” (provenienti da fuori dei confini del ducato: Fabriano, Pioraco, Foligno), mentre erano locali gli altri lavoranti.
Con il passare del tempo si consolidò una tradizione cartaria e mastri e maestranze furono tutti, o quasi, fermignanesi.
(estratto da F. Mariani 1993).
LA SIGNORA DELLA CARTA
La cartiera di Fermignano iniziò la produzione di carta di stracci nel 1408 e in molti libri di storia si può leggere come l’opificio sia stato costruito sotto il governo di Guidantonio da Montefeltro.
Ciò è vero, ma guardando al microscopio i fatti possiamo notare qualche piccolo particolare interessante.
Il Montefeltro era appena succeduto al padre Antonio, il quale era già in contatto e molto amico dei cartari fabrianesi, con i quali la famiglia aveva anche legami di sangue. Quindi l’idea della costruzione di una cartiera nei pressi del nuovo Castello di Fermignano doveva già essere all’ordine del giorno. Ma chi si interessò degli affari della cartiera? È un fatto noto che i Montefeltro erano professionisti della guerra, condottieri di ventura che prestavano le proprie spade ei propri eserciti al miglior offerente. Spesso gli uomini della famiglia erano lontani da casa e dovettero affidare ad altri la gestione dello stato.
Ai tempi di Antonio, in caso di assenza del conte il potere era nelle mani di sua moglie, la carismatica Agnesina di Vico.
Agnesina era stata addestrata fin dall’infanzia nell’arte della politica e dell’amministrazione. Era andata in sposa a Antonio nell’autunno del 1367 grazie a un’alleanza politica tra Francesco di Vico e Antonio da Montefeltro. Sebbene sia stato certamente un matrimonio politico, la coppia sembrava bene assortita. Agnesina e Antonio avevano più o meno la stessa età, entrambi avevano ricevuto un’educazione raffinata e le loro famiglie venivano da una lunga tradizione di scomuniche papali e di guerre contro la chiesa.
Agnesina fu sempre al fianco del marito nelle sue frequentazioni fabrianesi, e la sua firma era accanto a quella di Antonio sugli atti ufficiali.
Alla morte del marito nel 1404, Agnesina oltre a vivere una vita di ascetismo e pellegrinaggi sacri, affiancò il nuovo conte Guidantonio e si interessò in prima persona degli affari della cartiera gestendola insieme al figlio tramite i suoi affittuari e i suoi fattori fino alla sua morte.
La firma della contessa di Urbino, infatti, si ritrova negli atti di vendita d’ingenti quantità di carta fino all’anno della sua morte nel 1416.
Alcuni esempi:
-1412, 28 maggio; la contessa Agnesina dei Prefetti di Vico, vedova del conte Antonio (morto nel 1404) e madre di Guidantonio, vende a Nassuccio del fu Berto di Fabriano «provincie marchie anconitane mercator» 32 balle di carta di fioretto e 14 di quella fina (per un corrispettivo di 302 ducati d’oro e 200 fiorini d’oro),” con possibilità di effettuare il pagamento in varie città: Urbino,
Rimini, Perugia, Fano, Fossombrone, Recanati, Fabriano, Ancona, Jesi, Sassoferrato, Cagli, Gubbio, Firenze, Bologna, Venezia. In questo atto compare, per la prima volta ed ancora quale semplice teste, il fabrianese Piero di Lorenzo.
-1413, 23 marzo; la contessa Agnesina vende ad Antonio del fu Levi di
Urbino «quatra Episcopatus merciarius», dieci balle di carta fina (a 12 ducati la balla) e dieci balle di fioretto (a 10 ducati la balla)” per un totale di 220 ducati, con scadenza del pagamento ad un anno.
-1413, 27 aprile, sempre la contessa Agnesina vende a Pietro del fu Jacopo di Villa Cavallino del contado di Urbino, una balla di carta fina, una balla di fioretto e due balle di carta straccia per un totale di 23 ducati.
– 1414, 25 gennaio; Antonio del fu Levi di Urbino acquista dalla contessa 24 balle di carta: 12 di carta fina reale a 12 ducati la balla e 12 di fioretto a 10 ducati la balla per un totale di 264 ducati.
– 1414, 6 dicembre, ancora Antonio del fu Levi acquista dalla contessa 10 balle di fina (per 120 ducati) e 18 di fioretto (180 ducati); si impegna a corrispondere il dovuto entro un anno in una delle seguenti «piazze: Urbino, Rimini, Pesaro, Fano, Fossombrone, Cagli, Gubbio, Castello [Città di C.] Firenze, Bologna, Ferrara, Padova, Venezia, Verona, Vicenza. »
– 1415, 25 aprile; con Piero di Lorenzo «de Fabriano abitante Urbini, stipulanti nomine et wice illustris et magnifice domine comitisse Agnesine de Prefectis comitisse Montisferetri, Urbi, …» ancora Antonio del fu Levi concorda l’acquisto di 4 balle di carta reale, 6 di carta fina e 10 di fioretto, per un totale di 225 ducati.
– 1416, 4 gennaio; Benedetto del fu Matteo di Ventoruccio di Sant’Angelo in Vado acquista dalla contessa Agnesina 7 balle di carta di fioretto per 70 ducati.